La conquista di Terracina del 406 a.C.

La conquista di Terracina del 406 a.C.

Il racconto della conquista della città ad opera dei Romani, così come narrato dallo storico Tito Livio (59 a.C. - 17 d.C.)

A tutt’oggi non si conosce molto delle prime fasi storiche della città di Terracina: esse, infatti, ci sono note solo attraverso le fonti letterarie. Non potendo, per ovvie ragioni, verificare la leggenda che la vorrebbe fondata da esuli Spartani, dobbiamo scartare le supposizioni e limitarci ai dati certi.

Sappiamo che, di sicuro, Terracina fu dapprima centro Ausonio e alla fine del VI secolo a.C. era già sotto l’influenza romana, come dimostra la sua menzione nel primo trattato romano-cartaginese citato dallo storico greco Polibio. In seguito fu occupata dai Volsci, che le mutarono il nome da Tarracina (derivato dal greco Ταρρακινή - Tarrakiné o dall’etrusco Tarchna) in Anxur; fu poi riconquistata dai romani nel 406 a.C. e da allora seguì il destino dell’Urbe nel corso dei secoli.

La (ri)conquista di Terracina del 406 a.C. ci è nota attraverso lo storico Tito Livio, nato a Patavium (oggi Padova) nel 59 a.C. e ivi morto nel 17 d.C., che sotto il regno di Augusto scrisse la sua monumentale Ab Urbe Condita (Dalla fondazione di Roma), opera di tradizione annalistica che narra la storia di Roma dalle origini (753 a.C.) alla morte di Druso (9 d.C.). Essa era suddivisa in 142 libri, di cui ci sono pervenuti solo i libri I–X e XXI–XLV (l’ultimo mutilo) e scarsi frammenti degli altri, i quali sono a noi noti attraverso dei riassunti chiamati Periochae.

Nel caso che ci interessa, possiamo conoscere la storia della presa di Terracina attraverso il testo originale, contenuto nel Libro IV capitolo 59, di cui riportiamo il testo latino con traduzione italiana a fronte.

[59] Interim tribunos militum in Volscum agrum ducere exercitum placuit; Cn. Cornelius unus Romae relictus. Tres tribuni, postquam nullo loco castra Volscorum esse nec commissuros se proelio apparuit, tripertito ad devastandos fines discessere. Valerius Antium petit, Cornelius Ecetras; quacumque incessere, late populati sunt tecta agrosque, ut distinerent Volscos; Fabius, quod maxime petebatur, ad Anxur oppugnandum sine ulla populatione accessit. Anxur fuit, quae nunc Tarracinae sunt, urbs prona in paludes. Ab ea parte Fabius oppugnationem ostendit; circummissae quattuor cohortes cum C. Seruilio Ahala cum imminentem urbi collem cepissent, ex loco altiore, qua nullum erat praesidium, ingenti clamore ac tumultu moenia invasere. Ad quem tumultum obstupefacti qui adversus Fabium urbem infimam tuebantur locum dedere scalas admovendi, plenaque hostium cuncta erant, et immitis diu caedes pariter fugientium ac resistentium, armatorum atque inermium fuit. Cogebantur itaque victi, quia cedentibus spei nihil erat, pugnam inire, cum pronuntiatum repente ne quis praeter armatos violaretur, reliquam omnem multitudinem voluntariam exuit armis, quorum ad duo milia et quingenti vivi capiuntur. A cetera praeda Fabius militem abstinuit, donec collegae venirent, ab illis quoque exercitibus captum Anxur dictitans esse, qui ceteros Volscos a praesidio eius loci auertissent. Qui ubi venerunt, oppidum vetere fortuna opulentum tres exercitus diripuere; eaque primum benignitas imperatorum plebem patribus conciliavit. Additum deinde omnium maxime tempestiuo principum in multitudinem munere, ut ante mentionem ullam plebis tribunorumue decerneret senatus, ut stipendium miles de publico acciperet, cum ante id tempus de suo quisque functus eo munere esset.

[59] Nel frattempo, fu deciso che i tribuni militari conducessero l’esercito in territorio volsco. A Roma fu lasciato soltanto Gneo Cornelio. I tre tribuni, quando risultò evidente che i Volsci non erano accampati da nessuna parte e che non avrebbero affrontato il rischio di una battaglia, divisero in tre l’esercito e quindi si sparsero a devastare la zona. Valerio si diresse su Anzio, Cornelio su Ecetra [antica città italica di cui non si conosce l’esatta ubicazione, forse posta sui Monti Lepini, n.d.r.]: dovunque passavano, saccheggiavano campi e abitazioni in lungo e in largo, per tenere divise le forze dei Volsci. Fabio, senza compiere alcun saccheggio, andò ad assediare Anxur, che era l’obiettivo principale della campagna. Anxur, l’attuale Terracina, era una città declinante verso un terreno paludoso. Fabio simulò un attacco da quella parte; le quattro coorti affidate a Servilio Ahala con l’ordine di aggirare la zona si impossessarono di una collina che dominava la città. Quindi, da questa posizione sovrastante, in un settore dove non vi era alcun presidio, tra tumulto e alte grida assalirono le mura. Quelli che difendevano la parte più bassa della città contro Fabio, sorpresi da quell’offensiva repentina, lasciarono agli attaccanti il tempo per accostare le scale alle mura. Subito la città si riempì di nemici; a lungo durò la terribile strage, sia di chi fuggiva, sia di chi cercava di resistere, di armati e di inermi. I vinti furono costretti a partecipare alla lotta, perché non vi era speranza per chi si ritirava. Ma all’improvviso venne dato l’ordine di risparmiare chi non era armato e allora tutti i superstiti deposero volontariamente le armi; così circa 2.500 furono catturati vivi. Fabio impedì ai suoi uomini di mettere le mani sul bottino finché non fossero arrivati i colleghi, dicendo che Anxur era stata presa anche da quegli eserciti, perché non avevano permesso agli altri Volsci di proteggere quella posizione. Quando i colleghi arrivarono, i tre eserciti saccheggiarono la città, che era molto ricca perché aveva goduto di un lungo periodo di prosperità. Quel gesto magnanimo da parte dei comandanti fu il primo segnale di riconciliazione tra plebei e patrizi. Si aggiunse poi un dono che fu il più opportuno di tutti quelli fatti dai maggiorenti al popolo: prima che la plebe e i tribuni vi facessero accenno, il senato decretò che i soldati venissero pagati attingendo direttamente alle casse dello Stato, mentre fino a quel giorno ciascun soldato prestava servizio a proprie spese.


Interessante, a tal proposito, la declinazione del nome Tarracina al plurale (“Quae nunc TarracinAE SUNT), che lascerebbe presumere che già allora la città fosse divisa in più “quartieri” di grande entità.